02.01.2022
Dio salvi l’industria
hunum-storie-03

Una dolce melodia, con il suo ovattato ticchettare digitale, mi richiama dal torpore. L’inaspettata sensazione di benessere dovuta alla leggera pressione delle coperte autunnali sul mio corpo mi trattiene per qualche istante dal reagire. Il mio braccio scivola verso il comodino, in maniera automatica, finche i miei polpastrelli raggiungono la superficie piacevolmente goffrata della costosissima custodia di plastica ed elastomeri. Ne esplorano tutto il micropaesaggio, assaporandone le asperità e le lunghe vallate levigate. Superato il “bump” delle fotocamere riescono finalmente a raggiungere il bordo. Fermo. Ripido. Sicuro. La mano intera afferra il prezioso manufatto. È mattina.

Qualche istante per riprendermi da un sonno scadente, e il calendario mi ricorda che devo mettere il sacchetto della plastica fuori dal portone di casa, che devo comprare il pane, e che ho un appuntamento tra poco più di mezz’ora. Mentre imposto il timer del macina caffè e regolo la giusta temperatura dell’acqua del bollitore, mi soffermo a pensare a quanto sono fortunato ad avere un piccolo computer che memorizza e ragiona per me. D’altro canto come potrei ricordarmi di tutte quelle cose da fare, mentre faccio tutte quelle altre cose?

Già sento le orde di ragazzini pronti al linciaggio. “Come ti permetti di dire queste cose! Non sai che l’industria è la causa principale del cambiamento climatico?” “Non c’è un pianeta B, boomer!” Tutto questo ovviamente urlato digitalmente da un iPhone 26 pro gazilion super ultra, mentre sgranocchiano un avocado toast sfrecciando su un monopattino elettrico.

La verità è che ci ritroviamo tra le mani un mondo molto diverso da quello che ci eravamo immaginati. E nessuno pare trovare un modo di risolvere la situazione, salvando la proverbiale capra con tutti i suoi cavoli. Nè i boomer con la loro pigrizia, nè i ragazzetti naive con la loro inesperienza.

E non sarò certo io a distillare pillole di verità sull’argomento, come ben sapete, sono solito prendere decisioni opinabili, senza alcuna base razionale. Però è innegabile che qualche problema in fondo ci sia e ci tocchi personalmente (vi ricordo che recentemente è andato a fuoco l’oceano. Quello con l’acqua dentro.). L’altra sera, mentre finivo di premere l’acceleratore di diversi attrezzi per facilitare la crescita del cibo dalla terra, ho avuto un’idea. E se ci fossimo sbagliati?

Pensate alla nostra civiltà come ad un adolescente. Immaginatevelo. Nato nel 1745 (anno di inizio della rivoluzione industriale), con dei pessimi genitori (noi), in tutti questi anni non ha fatto altro che comportarsi seguendo il suo istinto primordiale. Crescere. Vi ricordo che nel cervello di un adolescente c’è una voce che ripete, tipo mantra, dei suoni gutturali alternati a “chissenefrega”, “vaffanculo”, “ho fame” e “scopare”.

Però il nodo della questione non dovrebbe nemmeno essere lo scioglimento dei ghiacciai, o gli acquazzoni estivi. In gioco, al momento, c’è il passaggio dell’umanità allo stato di maturità. Voglio dire, come specie abbiamo raggiunto un’età tale sarebbe decisamente il caso di mettere la testa a posto, non trovate?

Non dico di ritirarci tutti in convento, per carità, sono sempre stato un discreto gaudente. Ma continuare a perseverare nell’errore che è causa di numerosi grattacapi, non ci descrive esattamente come creature particolarmente intelligenti. Il mantra di prima lo recitano anche molti adulti a dire il vero. Varrebbe la pena di riconsiderare alcune scelte.

A partire proprio dall’industria. Nell’ultimo paio di secoli in pratica le abbiamo delegato il soddisfacimento dei nostri bisogni più disparati (dal cibo al vibratore per intenderci), e le abbiamo anche attribuito il ruolo di fornitore preferenziale di posti di lavoro.

Per metterla in forma molto elementare, chi, come me, si interroga da anni su come risolvere il problema (più che altro per capire quanto meno per chi parteggiare), si trova di fronte ad un paradosso. Seguite il ragionamento. Il problema climatico è causato principalmente dalla sovrapproduzione di beni e servizi. Lo spreco e lo smaltimento di questo superfluo, causano una grande quantità di ulteriore inquinamento. Le industrie per sopravvivere devono continuare a produrre, altrimenti non coprono le spese, e fanno infuriare gli investitori (a cui non interessa molto cosa si produca, come, e perchè, basta ricevere il bonifico dei dividendi). Se le industrie smettono di produrre, i lavoratori vengono licenziati, creando un grosso problema sociale (e qui c’è il proverbiale cane che si morde la coda). Si crea quindi un pendolo fra problema ambientale (a medio termine), ed un problema sociale (potenzialmente immediato).

Chi si domandasse perchè i governi non prendano provvedimenti seri sull’argomento, beh ecco il motivo. No, non c’è in effetti un pianeta B, ma neanche una vita B per qualche miliardo di persone.

A ben vedere, quello che è successo, è tutta una questione di opportunità. Da una parte degli imprenditori spregiudicati (e capaci) hanno visto opportunità di guadagno come mai successo prima d’ora, dall’altra la forza lavoro ha visto l’opportunità di inserimento in una grande macchina, apparentemente inarrestabile, che promette sicurezza, stabilità e turni di lavoro prestabiliti (e prevedibili).

Ma tutto questo ha un prezzo. L’industria ama lo standard. Prodotti che vanno bene a tutti ma non soddisfano pienamente nessuno, norme che vogliono uniformare il tonno in scatola siciliano al wurstel della sassonia, vendere le stesse cose in tutti i mercati del mondo. All’industria piace anche da matti non fermarsi mai, e si è inventata uno stratagemma geniale. I turni. E chissenefrega dell’alternanza del giorno e della notte e delle stagioni. Dentro il capannone ci sono le luci al neon e l’aria condizionata. Vaffanculo stupida (e dannosa) natura.

Non so se ve ne rendiate conto, ma siamo l’unica specie al mondo che si comporta come se non esistessero le stagioni. Stesso lavoro tutto l’anno, con gli stessi orari e le stesse mansioni. Noi non ce ne accorgiamo più ormai, ma oltre a notte e dì, anche le stagioni si alternano in attività e riposo. Provate a piantare un pomodoro a dicembre (nell’emisfero boreale).

I danni sociali e psicologici creati da questo sistema sono evidenti, se ne parla da almeno 50 anni, e non mi pare il caso di aggiungere ulteriori banalità. Ma ci sono dei punti che mi coinvolgono personalmente, e che voglio condividere con voi, che vostro malgrado siete arrivati fino a qui.

E’ curioso ma pur essendo sempre più istruiti ed informati su tutto ciò che avviene nel mondo in tempo reale, abbiamo bisogno che qualcun altro (o qualcos’altro) faccia delle cose per noi. E non sto parlando soltanto della pasta alla carbonara. Abbiamo bisogno di un falegname per appendere un quadro, di un giardiniere per piantare due fiori in terrazzo, di un corriere o di un rider che ci porti gli acquisti a casa, di un influencer che ci dica cosa comprare, ed infine, abbiamo bisogno di qualcuno che crei un lavoro per noi.

Siamo cresciuti con il mito del “bigger is better”, confondendo la crescita di poche aziende con l’aumento del benessere della nostra società. Sento spesso parlare di ridistribuzione della ricchezza, che deve essere una conseguenza, ma non l’origine del cambiamento. Non possiamo continuare ad aspettarci che qualcuno arrivi un giorno e cambi le cose. Nessuno andrà a prendere i soldi dalle tasche di Elon Musk per metterli nelle vostre. Non sarebbe nemmeno giusto.

Imparare un mestiere, avere il coraggio e la maturità di accettare orizzonti a lungo termine, sapere che le cose costruite con il tempo sono le più solide e che ci restituiscono le gioie maggiori. Tornare a vedere il proprio lavoro come un bene prezioso, e non la spiacevole parentesi tra un weekend e l’altro. Tornare a fare cose buone, per bene, di cui andare fieri, e fatte per superare la prova più difficile. Quella del tempo.

L’artigiano non spreca, produce solo quello di cui c’è bisogno, quando ce n’è bisogno. L’artigiano non stabilisce standard, si adatta a ciò di cui ha bisogno il cliente. l’artigiano non appiattisce, mantiene la sua unicità, e contribuisce ad arricchire la nostra cultura.

Comunque si è fatto tardi, l’iPad da cui vi sto scrivendo si sta scaricando, metto tutto sul cloud, e creo un evento sul calendario in modo che mi ricordi di postare questo articolo sul blog. Controllo un’ultima volta il cellulare prima di posarlo sul comodino. Il cavo è collegato? Si. Bene, non vorrei trovarlo scarico domani mattina.

Buonanotte.

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